Votando sul Titanic

Written By Unknown on Sabtu, 20 April 2013 | 15.12

Di Antonio Satta

Come nel 1992, sull'elezione del Presidente della Repubblica s'è abbattuta la tempesta perfetta. Crisi del sistema politico, con l'implosione della seconda repubblica basata su un bipolarismo ormai scardinato dalla valanga grillina. Crisi dei partiti (vale ora per il Pd, perché è il partito centrale di questa legislatura, quanto meno per numero di seggi parlamentari, ma è valsa quasi in maniera speculare per il Pdl in quella scorsa). Crisi delle istituzioni con un governo in carica dimissionario da mesi, nessuna possibilità di farne uno nuovo, un presidente della Repubblica in scadenza, che non può sciogliere le Camere mentre quel Parlamento che dovrebbe eleggere il suo successore, non riesce a farlo per le stesse ragioni che impediscono la nascita di un nuovo governo.

Nel 1992, tra Mani Pulite, crisi della Prima Repubblica, dissoluzione del pentapartito e implosione di Dc e Psi, il gioco al massacro tra forlaniani e andreottiani, bruciò i due capicorrente sulla via del Colle e bloccò in un'impasse angosciante i grandi elettori per quindici scrutini, al sedicesimo venne eletto Oscar Luigi Scalfaro con 672 voti, ma a quel voto si arrivò solo per l'effetto psicologico della strage di Capaci.

Facendo gli scongiuri per quanto riguarda le conclusioni, è innegabile che le similitudini siano tante. Troppe. Venerdì 19 aprile, dopo solo quattro votazioni, la guerra per bande in corso nel Pd non aveva solo bruciato due candidati fra i più autorevoli del partito, Franco Marini e Romano Prodi, ma anche le due sole opzioni politiche che il segretario Pier Luigi Bersani aveva nelle mani: trovare un nome di garanzia insieme al  centrodestra (e si è avuta la dimostrazione plastica che anche solo il sospetto di un accordo con Silvio Berlusconi è in grado di mandare in tilt militanti e dirigenza), oppure eleggere insieme ai grillini un presidente di rottura degli schemi tradizionali. In 24 ore tutte e due le opzioni sono state azzerate. Ora il Pd è allo sbando, senza candidati, senza linea e senza vertice. Perché è evidente che, al di là della sorte di Bersani, non può restare al suo posto un gruppo dirigente, che viene sconfessato due volte nel voto segreto dei suoi parlamentari. Prima su una linea e poi su quella opposta, entrambe approvate con un voto (a maggioranza su Marini e addirittura all'unanimità su Prodi).

Un disastro politico che non ha precedenti, tanto da far dubitare che il partito, per come si è configurato finora, possa sopravvivergli. Scoprire chi è stato ad ammazzare il Pd è un esercizio che sta impegnando  i retroscenisti della politica, ma forse è addirittura inutile capire se il delitto si debba alla machiavellica perfidia di Matteo Renzi, come dicono i sostenitori di quelli che in questo gioco ci hanno lasciato le bucce. L'accusa è che avrebbe silurato Marini, candidando simultaneamente Prodi, per poi affondarlo nel segreto dell'urna, in modo da rottamare non solo gli uomini ma anche le culture fondanti del partito. Ipotesi per ipotesi, questa vale come quella di chi pensa che Prodi sia caduto sotto il fuoco dei mariniani, ossia degli ex dc che hanno subito più che condividere l'Ulivo, l'Unione e tutte le altre palingenesi in chiave «dem». O l'altra tesi di chi vede sul cadavere dell'ex premier le impronte di Massimo D'Alema, il quale, a sua volta, entrò Papa nel precedente conclave quirinalizio, per uscirne declassato a vescovo più che a cardinale.

Magari c'è un po' di vero in ognuna di queste ricostruzioni e forse anche in tante altre che si possono immaginare. Ed è vero anche che se i candidati alle elezioni si scelgono in primarie di collegio, sulla base di poche migliaia (se non centinaia, di consensi), non ci si può poi stupire se al centesimo sms negativo da parte di chi rappresenta quel ridotto corpo elettorale, un parlamentare finisca per comportarsi all'opposto di quanto si era appena impegnato di fare. Il «contrordine compagni» ora arriva via twitter e non lo spedisce più il partito, ma la versione 2.0 della «ggente», l'entità metafisica che ha fatto prima la fortuna di Michele Santoro e compagnia e ora è la base del successo di Beppe Grillo.

Quel che veramente conta è che le macerie del voto su Prodi e su Marini hanno sepolto tutte le candidature possibili del Pd. Impossibile mettere in campo un altro dirigente di quel partito. In una situazione balcanizzata come l'attuale cambierebbe solo da quale postazione i cecchini lo farebbero fuori. Per lo stesso motivo anche confluire sull'insidioso candidato di Grillo, Stefano Rodotà, avrebbe poco senso per il Pd. L'obiettivo dei 504 voti, date le inevitabili defezioni, non sarebbe comunque a portata di mano. Il Pdl chiede al centrosinistra di tornare a Marini, che comunque il quorum della maggioranza assoluta lo aveva superato, ma anche questa inversione a U ormai non è più possibile. Restano quindi solo due possibilità, o trovare un candidato più o meno esterno ai partiti e votabile un po' da tutti (con l'autoesclusione dei M5S), magari il ministro Rosanna Cancellieri, oppure chiedere a Giorgio Napolitano di accettare una conferma a tempo (ossia ciò che ha incrollabilmente respinto per mesi).  C'è sempre poi la possibilità di continuare  il gioco al massacro, come nel 1992. E non è una bella prospettiva. (riproduzione riservata)



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